Il canto del muezzin riecheggia tra lo Stari Most e il fiume
della Neretva. Tra vicoli ciottolati, ragazze con il velo e ferite che ancora
sanguinano. A Mostar, città della Bosnia Erzegovina, sembra di tornare indietro
nei secoli. Siamo nella parte Est, quella dei bosniaci. Perché che piaccia o
no, Mostar è ancora una città profondamente divisa. Da quel bellissimo ponte
bombardato e ricostruito. Come tutta la federazione della Bosnia Erzegovina. Tra
i croati e i bosniaci le divisioni ci sono ancora. Eccome se ci sono. I segni
della guerra sono talmente tanti che si fatica a pensare che siano trascorsi
così tanti anni dalla sua fine. I palazzi sventrati. I colpi sulle case
rattoppati in una qualche maniera. Una ragazza si affretta a dire: “I croati si
sono dati da fare per ricostruire, i musulmani aspettano i contributi. Così
facendo non riusciranno più a sistemarsi”. Chi dice che le cose vanno bene, racconta
il falso. Don Krešo Puljić della parrocchia di San Tommaso sta lavorando
intensamente per costruire una chiesa e un auditorium per i giovani. La sua
chiesa è sempre piena di ragazzi che lui definisce ‘dal cuore grande’. Ci
indica un giovane dalla faccia pulita. “Studia medicina e ha il cuore grande”,
dice. Il ragazzo sorride e ringrazia.
Qui siamo dall’altra parte della città, dove l’atmosfera è
completamente diversa. Perché Mostar è il simbolo della diversità. E i croati
si sentono croati. Se la prendono con gli accordi di Dayton del 1995 che li hanno
annessi alla Bosnia Erzegovina. Mostar è la città dove sono sorte le moschee
accanto alle chiese cattoliche. Dove i croati hanno un passaporto europeo e i
bosniaci no. Dove non mancano le sale scommesse. Dove anche la birra è diversa
da una parte e dall’altra. Dove un pacchetto di sigarette ‘Drina’ lo puoi
comprare solo nella Mostar musulmana, ma se lo prendi a Medjugorje ti guardano
in cagnesco. Ci spostiamo di qualche chilometro. Nel villaggio di Počitelj
abbiamo incontrato il proprietario di un ristorante islamico. Dice che non c’è
famiglia nella Bosnia Erzegovina che non sia mista. Qualcuno cristiano,
qualcuno musulmano. “Non ci sono problemi”, afferma. E’ un personaggio ambiguo.
Racconta e si vanta di quello che ha fatto. Capelli lunghi, ha avuto due mogli
tedesche, parla cinque lingue, gira con il Maserati ostentando la sua ricchezza
in un paese dove lo stipendio medio si aggira attorno ai 300 euro al mese.
Al ristorante islamico vicino allo Stari Most non spendi più
di 9 euro a testa e ti danno un piatto di Ćevapčići. La carne è d’obbligo in
quella terra. Niente pastasciutta. Carne in abbondanza. Si fuma nei ristoranti,
non c’è nessun divieto. Ma basta guardare i volti per scoprire che non ci sono
molti sorrisi. Qualche ragazzo che scherza in giro per il centro la sera lo
trovi. Poi ti addentri nelle vie periferiche ed è il coprifuoco. Il 28 gennaio
1994 tre italiani, il giornalista Marco Luchetta, Dario D’Angelo, cameraman, e il
tecnico Alessandro Ota, vennero uccisi all’interno di un cortile, in un
palazzone che somiglia molto alle nostra case popolari degradate. Oggi ci sono
due targhe che li ricordano, in quel punto. Ma si fa fatica a parlare con
qualcuno dei residenti che ricordi qualcosa. Quei tre colleghi stavano
realizzando un servizio sui bambini massacrati durante la guerra. E’ un altro
colpo che ferisce. Sono i cimiteri di Mostar. Ricavati dai parchetti pubblici.
Ragazzi nati agli inizi degli anni ’70 che hanno perso la vita combattendo. Ma
anche tanti civili. Cimiteri islamici e cristiani. Tombe sorte in un piccolo
spazio verde accanto ai tavolini di un bar.
C’è il museo del genocidio che lo ricorda a Mostar. Quello
dove vedi le magliette insanguinate, i cadaveri, la pulizia etnica. Oggi la
guerra fa parte della storia. Mostar è città turistica obbligata per chi va a
farsi un pellegrinaggio a Medjugorje perché tanto dista una trentina di
chilometri percorribili lungo una strada pericolosa protetta solo da un misero
guard rail. E quando nel 1994 ci perse la vita il maggiore dei carabinieri
Ermanno Fenoglietti non c’era nemmeno il guard rail. Una morte che ha lasciato
molti interrogativi e dubbi, quella del militare italiano.
Oggi i problemi di Mostar e della Bosnia sono altri. “Si
chiamano mafia e corruzione”, ci dice don Don Krešo. Raggiungono livelli spaventosi.
Non è la microcriminalità a dar problemi. Nelle case c’è sempre un kalashnikov
pronto ad entrare in azione. Si sta facendo qualcosa, ma non molto, per portare
avanti il turismo. Si entra nella moschea Koski Mehmed-Pašha nel centro di
Mostar. Con sei euro ti fanno salire sul minareto dal quale si ammira un
paesaggio incantevole. All’interno ci sono una ventina di persone intente nella
preghiera. C’è lo spazio riservato ai visitatori. Ma quanti turisti occidentali
ci salgono? Ben pochi a dire il vero. Anche se un ragazzo al banco di ingresso
della moschea di Blagaj sorride e ci dice che “dopo Medjugorie, in tanti vanno
a visitare anche la moschea. Va tutto bene, qui tutti possono entrare a vedere
la moschea e la nostra cultura”. (Foto Francesco Maria Bienati)
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