giovedì 28 febbraio 2019

Novembre 2017, La moschea di Barcellona: porte sempre aperte, il turista entra quando vuole


Il Centro Culturale Islamico di Carrer Rafael Capdevila a Barcellona è il terzo che ho visitato nella mia vita dopo quelli di Magenta (era in via Oberdan tempo fa e non esiste più) e Abbiategrasso in via Crivellino. Quali differenze ho trovato? Nessuna. L’unica è la presenza della moschea sotto il centro a Barcellona, mentre ad Abbiategrasso non si può parlare di moschea anche se viene usato per la preghiera, oltre che per attività varie.

Perché ne parliamo? Volevamo vedere come e se si sono integrati i musulmani in una città che solo recentemente ha subito un gravissimo attentato di matrice islamica costato la vita anche ad un uomo della nostra zona. Come e perché in quella terra si siano radicati giovanissimi invasati che hanno ucciso. Domande rimaste senza risposta, come già sapevamo. Raggiungere il Centro Culturale Islamico non è stato difficile. Arrivati a Carrer Capdevila lo abbiamo visto subito. Il portone è sempre spalancato. Testimonianza che il Centro è perennemente aperto ai visitatori. All’ingresso abbiamo trovato una ragazza musulmana che ci ha accolto: “Potete andare dove volete”, ha detto. Eravamo quasi stupiti. Ma come, in una terra dove c’è chi ha seminato odio uccidendo dei poveri innocenti non sembrava proprio di entrare in un luogo chiuso.
 

Leggiamo il sito del centro e la troviamo anche per iscritto, sul loro sito, quella che è la filosofia portata avanti da chi lo frequenta: “Nuestra asociación está abierta a todo el público en general, de esta manera buscamos ofrecer que todas las personas sin distinción, tengan la posibilidad de conocer el islam. Nuestras jornadas y actividades están destinadas para favorecer la integración entre todos, sean musulmanes o no”. Ma ovviamente a noi curiosi non bastava il Centro Culturale. Volevamo vedere anche la moschea. Chiediamo alla ragazza che acconsente. Arriva un responsabile, Alì. Egiziano. Ci accompagna alla moschea. Ci togliamo le scarpe. Entriamo. C’è silenzio totale. Alcuni pregano. Alì ci spiega che è il venerdì il giorno di massima frequentazione, come ovunque. In Catalogna sono alcune migliaia i musulmani. Lui non è mai stato in Italia, se non di passaggio.
 

“Sia prima che dopo l’attentato terroristico i rapporti con gli abitanti di Barcellona sono sempre stati meraviglios”, ha detto. Torniamo sempre al solito discorso. La stragrande maggioranza degli islamici vive in pace. E gli attentati che hanno colpito nelle più svariate città europee ci lasciano attoniti. Ci spingono a dire che l’Islam porta solo odio e che non vogliamo i musulmani nelle nostre terre. Giusto o sbagliato che sia noi raccontiamo quel che vediamo. A Barcellona hanno seguito una linea diversa. Il sindaco Ada Colau è sempre stata a favore dell’accoglienza portandosi dietro critiche feroci. Che abbia fatto bene o male non spetta a noi giudicarlo. Di certo continua su questa strada favorevole all’accoglienza dei migranti. Anche dopo la strage sulla Rambla.
 

Per una mezzora siamo rimasti nella moschea insieme ad Alì. Abbiamo osservato ovunque. Si può entrare anche il giorno della preghiera. Sono loro a volerlo per mostrare al mondo che non odiano nessuno. Eppure c’è sempre qualcosa che non va. Salutiamo Alì. Usciamo da Carrer Capdevila. Inshallah, ci vediamo se Dio vuole.
 
 

sabato 23 febbraio 2019

AGOSTO 2016 Carol, la volontaria svizzera che aiuta i profughi


Ci piace raccontare quello che succede nel mondo. Quindi non ci limitiamo al nostro territorio, ma a volte sconfiniamo. Senza alcuno scopo di guadagno, ma soltanto per conoscere e capire le problematiche che ci affliggono. Siamo tornati sul fenomeno immigrazione a Como dove abbiamo incontrato Carol. E’ una ragazza di 20 anni che vive nel cantone Svizzero di Zurigo e fa la volontaria, senza tra l’altro appartenere a nessuna associazione, al campo profughi allestito di fronte alla stazione San Giovanni. Carol inizialmente ci guardava con diffidenza. Temeva chi si presentava dicendo di essere giornalista. Poi, col trascorrere del tempo, abbiamo avuto un incontro amichevole e ci ha raccontato come si svolgono le giornate al campo profughi di Como. “Volevo vivere un’esperienza diversa, è per questo che sono qua – racconta – Non so quanti volontari ci sono. C’è chi arriva solo per un giorno e chi rimane per più tempo”.

Ci sono raccolte per i vestiti, un servizio da barbiere, vengono svolte attività di vario genere. Come quella di avere avviato un corso di lingua tedesca. “La stragrande maggioranza di loro vuole andare in Germania – continua Carol – è per questo che abbiamo cominciato ad insegnare ai ragazzi i rudimenti di tedesco”. Il lavoro di questi ragazzi è importantissimo. Tengono controllato un campo profughi dove arrivano decine e decine di migranti ogni giorno. Tutti giovanissimi. “Non passa giorno che qualcuno tenti di varcare la frontiera – ammette Carol – qualcuno ci riesce, molti vengono rispediti indietro”.

AGOSTO 2016 Alta la tensione a Ventimiglia, tra centinaia di profughi che vogliono varcare il confine


Una cittadina al collasso per l’emergenza profughi. L’abbiamo toccata con mano martedì quando ci siamo recati al confine tra Italia e Francia per cercare di capire come stanno andando le cose. E le cose non vanno per niente bene. Ieri non c’erano migranti sugli scogli. “Li hanno portati nella caserma per le procedure di identificazione”, ha spiegato un poliziotto in servizio al confine. La dogana è presidiata dagli Alpini della Taurinense. Andiamo alla ex caserma, un edificio dove ci abitano ancora poliziotti italiani e francesi. Lo stato di allarme è massimo. Quando ci vedono arrivare almeno tre funzionari ci vengono incontro e chiedono subito i documenti. Temono i ‘No Borders’, il gruppo che tutela la presenza dei profughi. Ma chi sono i ‘No Borders? “C’è di tutto in quel gruppo – dice un funzionario della Polizia di Stato – avete visto le armi che abbiamo sequestrato ieri? Ci sono anarchici di Milano e di Marsiglia. Non ci si può fidare di nessuno”. Vogliamo parlare con i profughi. Ne arrivano in quantità enorme a Ventimiglia. Ogni momento è buono. Alla stazione ci sono alcuni eritrei. Un ragazzo di 20 anni ci racconta: “Non voglio rimanere qua, devo raggiungere Parigi perché c’è mia moglie. Ma i francesi non ci fanno passare”. La Francia li respinge. Passi il confine e arrivi a Mentone. Un metro di distanza e cambia il mondo. Tanti che fanno jogging da un confine all’altro. Mentone è zeppa di turisti. Ventimiglia è caotica, traffico infernale. Le vie di fuga però sono parecchie, non solo gli scogli. Si passa anche per le montagne. Qualcuno ci riesce, molti non ce la fanno. I sentieri sono zeppi di immondizia, luridi.

Alcuni dormono così, tra i sacchi di rifiuti. E provano la fortuna. “La polizia francese è anche sulle montagne e anche di notte – racconta una volontaria della Caritas – ne hanno bloccati tantissimi sulle montagne”. Alla stazione ci sono alcune famiglie eritree. Donne e bambini piccolissimi. “Only arabic”, dicono. Parlano solo in arabo. Un ragazzo ci mostra i segni del coltello. “Li ho presi in Libia – dice – Is very dangerous in Libia. Dall’Eritrea siamo andati in Sudan, poi in Libia. Un inferno. Si rischia la morte in Libia. Poi siamo arrivati in Sicilia e a Milano, per arrivare a Ventimiglia. Anche io voglio andare a Parigi, non voglio rimanere in Italia”.

Il campo profughi è un’area dismessa (il Parco Roja) di proprietà delle Ferrovie messa a disposizione della Croce Rossa Italiana. C’è un sole cocente quando ci arriviamo. Ci sono gruppetti di sudanesi che escono e ci salutano. Sotto il sole che spacca il cervello alcuni ragazzi giocano a bigliardino. E’ pieno di giornalisti. Una televisione belga, altri colleghi della Repubblica Ceca e una giornalista del quotidiano spagnolo di Barcellona La Vanguardia. Il fenomeno ‘immigrazione’ interessa tutto il mondo.
 

Ad oggi non sappiamo come andrà a finire. I profughi hanno un cartellino che dimostra il loro status. Il cancello è sempre spalancato. Sudan Eritrea, Ciad, questi i paesi di provenienza. Ma soprattutto sudanesi. “Sull’età ci sono molte perplessità – dice l’addetta stampa della Croce Rossa – alcuni sono ragazzini e dichiarano tutti di essere nati il primo gennaio. Non lo sanno perché non c’è l’anagrafe al loro paese. Crescono nei villaggi e non vengono mai a saperlo”. Sono stati visitati. I medici non hanno riscontrato problemi. Al campo profughi ci sono solo uomini che vivono in container (sono circa 80 i container) da cinque, sei posti. Aperto dal 16 luglio 1.300 sono state le presenze al Parco Roja. Un numero impressionante, al quale vanno aggiunte le famiglie. La Croce Rossa fornisce i pasti e l’abbigliamento. Alcuni hanno magliette stampate per la Suisse Gas Milano Marathon, sono quelle avanzate. “Non è certo una galera – continua – qui i ragazzi entrano ed escono liberamente”.  Anche li controlli serrati. Ci controllano i documenti almeno 5 o 6 volte. Forse di più.

Articolo: Graziano Masperi, foto: Francesco Maria Bienati

domenica 17 febbraio 2019

AGOSTO 2018 Cosa mi resta di Scampia


Da Garibaldi a Scampia ci vuole circa un'ora e mezza di metropolitana. Cosa mi resta di questo breve viaggio nel quartiere napoletano teatro di delitti orrendi di camorra?  Intendiamoci bene.  Per capire un luogo, qualsiasi esso sia, servono mesi o addirittura anni. Non bastano certo poche ore. Eppure un passaggio tra le Vele,  l'aver osservato lo stile di vita in un quartiere degradato, avere scambiato qualche parola con i ragazzi del posto si è rivelato molto utile. Qui sotto pubblico (uscita sul quotidiano Il Giorno) una nostra simpatica esperienza che smentisce i luoghi comuni che fanno di Scampia un quartiere malfamato a tutti i costi. 
 
 

APRILE 2018 Bosnia Erzegovina, Mostar, una città ancora divisa con le moschee accanto alle chiese


Il canto del muezzin riecheggia tra lo Stari Most e il fiume della Neretva. Tra vicoli ciottolati, ragazze con il velo e ferite che ancora sanguinano. A Mostar, città della Bosnia Erzegovina, sembra di tornare indietro nei secoli. Siamo nella parte Est, quella dei bosniaci. Perché che piaccia o no, Mostar è ancora una città profondamente divisa. Da quel bellissimo ponte bombardato e ricostruito. Come tutta la federazione della Bosnia Erzegovina. Tra i croati e i bosniaci le divisioni ci sono ancora. Eccome se ci sono. I segni della guerra sono talmente tanti che si fatica a pensare che siano trascorsi così tanti anni dalla sua fine. I palazzi sventrati. I colpi sulle case rattoppati in una qualche maniera. Una ragazza si affretta a dire: “I croati si sono dati da fare per ricostruire, i musulmani aspettano i contributi. Così facendo non riusciranno più a sistemarsi”. Chi dice che le cose vanno bene, racconta il falso. Don Krešo Puljić della parrocchia di San Tommaso sta lavorando intensamente per costruire una chiesa e un auditorium per i giovani. La sua chiesa è sempre piena di ragazzi che lui definisce ‘dal cuore grande’. Ci indica un giovane dalla faccia pulita. “Studia medicina e ha il cuore grande”, dice. Il ragazzo sorride e ringrazia.

Qui siamo dall’altra parte della città, dove l’atmosfera è completamente diversa. Perché Mostar è il simbolo della diversità. E i croati si sentono croati. Se la prendono con gli accordi di Dayton del 1995 che li hanno annessi alla Bosnia Erzegovina. Mostar è la città dove sono sorte le moschee accanto alle chiese cattoliche. Dove i croati hanno un passaporto europeo e i bosniaci no. Dove non mancano le sale scommesse. Dove anche la birra è diversa da una parte e dall’altra. Dove un pacchetto di sigarette ‘Drina’ lo puoi comprare solo nella Mostar musulmana, ma se lo prendi a Medjugorje ti guardano in cagnesco. Ci spostiamo di qualche chilometro. Nel villaggio di Počitelj abbiamo incontrato il proprietario di un ristorante islamico. Dice che non c’è famiglia nella Bosnia Erzegovina che non sia mista. Qualcuno cristiano, qualcuno musulmano. “Non ci sono problemi”, afferma. E’ un personaggio ambiguo. Racconta e si vanta di quello che ha fatto. Capelli lunghi, ha avuto due mogli tedesche, parla cinque lingue, gira con il Maserati ostentando la sua ricchezza in un paese dove lo stipendio medio si aggira attorno ai 300 euro al mese.

Al ristorante islamico vicino allo Stari Most non spendi più di 9 euro a testa e ti danno un piatto di Ćevapčići. La carne è d’obbligo in quella terra. Niente pastasciutta. Carne in abbondanza. Si fuma nei ristoranti, non c’è nessun divieto. Ma basta guardare i volti per scoprire che non ci sono molti sorrisi. Qualche ragazzo che scherza in giro per il centro la sera lo trovi. Poi ti addentri nelle vie periferiche ed è il coprifuoco. Il 28 gennaio 1994 tre italiani, il giornalista Marco Luchetta, Dario D’Angelo, cameraman, e il tecnico Alessandro Ota, vennero uccisi all’interno di un cortile, in un palazzone che somiglia molto alle nostra case popolari degradate. Oggi ci sono due targhe che li ricordano, in quel punto. Ma si fa fatica a parlare con qualcuno dei residenti che ricordi qualcosa. Quei tre colleghi stavano realizzando un servizio sui bambini massacrati durante la guerra. E’ un altro colpo che ferisce. Sono i cimiteri di Mostar. Ricavati dai parchetti pubblici. Ragazzi nati agli inizi degli anni ’70 che hanno perso la vita combattendo. Ma anche tanti civili. Cimiteri islamici e cristiani. Tombe sorte in un piccolo spazio verde accanto ai tavolini di un bar.

C’è il museo del genocidio che lo ricorda a Mostar. Quello dove vedi le magliette insanguinate, i cadaveri, la pulizia etnica. Oggi la guerra fa parte della storia. Mostar è città turistica obbligata per chi va a farsi un pellegrinaggio a Medjugorje perché tanto dista una trentina di chilometri percorribili lungo una strada pericolosa protetta solo da un misero guard rail. E quando nel 1994 ci perse la vita il maggiore dei carabinieri Ermanno Fenoglietti non c’era nemmeno il guard rail. Una morte che ha lasciato molti interrogativi e dubbi, quella del militare italiano.

Oggi i problemi di Mostar e della Bosnia sono altri. “Si chiamano mafia e corruzione”, ci dice don Don Krešo. Raggiungono livelli spaventosi. Non è la microcriminalità a dar problemi. Nelle case c’è sempre un kalashnikov pronto ad entrare in azione. Si sta facendo qualcosa, ma non molto, per portare avanti il turismo. Si entra nella moschea Koski Mehmed-Pašha nel centro di Mostar. Con sei euro ti fanno salire sul minareto dal quale si ammira un paesaggio incantevole. All’interno ci sono una ventina di persone intente nella preghiera. C’è lo spazio riservato ai visitatori. Ma quanti turisti occidentali ci salgono? Ben pochi a dire il vero. Anche se un ragazzo al banco di ingresso della moschea di Blagaj sorride e ci dice che “dopo Medjugorie, in tanti vanno a visitare anche la moschea. Va tutto bene, qui tutti possono entrare a vedere la moschea e la nostra cultura”. (Foto Francesco Maria Bienati)

GIUGNO 2017 Reportage nel quartiere ghetto di Rosengard


Il vento è freddo, nonostante il periodo. Pioggia forte intermittente e sole a sprazzi. Un’immagine del mito Zlatan Ibraimovich capeggia su un negozio prima di entrare a Rosengard, il quartiere malfamato di Malmö. Siamo nella Svezia meridionale, regione della Scania. Lo scorso anno eravamo a Mollenbeek, quartiere islamico di Bruxelles. I reportage usciti negli ultimi anni non promettevano nulla di buono su Rosengard. Tafferugli, incendi, violenze, scontri con le forze dell’ordine sono praticamente all’ordine del giorno. Malmö definita la Chicago d’Europa a causa degli scontri continui tra gang di Rosengard e gruppi neo fascisti. E, cosa ancor più preoccupante, a Rosengard non si entra. Poliziotti, giornalisti, perfino vigili del fuoco e soccorritori, verranno accolti con un lancio di sassi senza pietà alcuna. Alla frontiera con la Danimarca controlli serratissimi, verifica di passaporto alla partenza da Copenaghen e all’arrivo, dopo nemmeno un’ora di treno, a Malmö. A noi poco importa dei controlli serrati e tanto meno di essere accolti con una sassaiola.
 

A Rosengard abbiamo deciso di andarci e ci andremo. Parecchie cose però le possiamo smentire. Non abbiamo subito nessun controllo nel nostro percorso verso Malmö. Arrivati nella cittadina svedese qualcosa si vede che cambia rispetto a Copenaghen. Qualche senza tetto in circolazione lo si nota, ma niente di eclatante. La città è ordinata, non tanto diversa da Copenaghen. Cartina alla mano percorriamo a piedi i 5 chilometri che separano il centro di Malmö da Rosengard. Ci accorgiamo di essere quasi arrivati quando sulla vetrata di un negozio governa la gigantografia del mito, Zlatan Ibraimovich. Lui che a Rosengard ha imparato prima a fare a botte e poi a giocare a pallone. Arriviamo al cartello che ci dice che siamo alla meta. Stanno tagliando il prato. Il quartiere è considerato un ghetto. Sorto per dare ospitalità alle migliaia di stranieri arrivati in Svezia per lavorare. E’ così. Entriamo nei casermoni di Rosengard. Guardiamo i citofoni. Sono slavi, asiatici, africani. Svedesi, forse un paio di media per palazzo. In alcuni nessuno. “Ciao, come vi trovate a Rosengard? E’ vero che c’è violenza in questo quartiere?”. Lo chiediamo a 4 ragazzine dai tratti asiatici. Si fermano, sorridono. Ci rispondono (e perché non dovrebbero farlo?). “Si si è vero, c’è violenza. Bisogna stare attenti qui”. Ci fermiamo nei negozi. Il quartiere è ben fornito. C’è un asilo, campi da calcio, negozi di ogni genere, un centro commerciale dove entriamo e vediamo una moltitudine di gente che fa acquisti. Qui come in qualsiasi altro posto al mondo.

Parliamo con la gente per quel poco che il nostro inglese precario ci concede. Molti però parlano solo arabo o lingue slave. Il quartiere lo troviamo ordinato. Continuano a tagliare i prati e a sistemare i giochi per i bimbi. Non c’è immondizia in giro. I bambini corrono inseguendo il sogno di diventare come Ibra. Chiediamo se sanno dove è nato. Certo che lo sanno. ci indicano la strada. E’ il ragazzo del giardino delle rose, quello che ha imparato prima a fare a botte e poi a giocare a pallone. Vogliono diventare come lui perché lui ha battuto la povertà ed è diventato ricco. E ha lasciato Rosengard. Fisicamente, ma non nei ricordi. Perché come ha detto Ibra “puoi togliere un ragazzo da Rosengard, ma non puoi togliere Rosengard da un ragazzo”. Al bar della stazione di Malmö incontriamo un giovane di Brescia. Lavora in Svezia perché si guadagna bene. In Svezia, ci dice, tutto deve essere perfetto. E’ un paese civile, dove la gente fa quello che deve fare. Hanno adottato un modello di accoglienza che ha portato a far arrivare in paese tantissimi stranieri. Rosengard è diventata una città, sono circa 25mila persone. Quasi tutte straniere. Il fatto che si siano verificati episodi di violenza ha mandato in tilt il modello svedese. Ma soprattutto, ha mandato in tilt la testa di chi aveva pensato di poter risolvere tutto con un quartiere ghetto. Dove tutto è pulito, dove il prato viene tagliato, dove non c’è un rifiuto in giro manco a cercarlo con la lente. Se dovessimo fare un paragone con lo schifo dei quartieri Aler di Magenta e Abbiategrasso non avremmo dubbi. Rosengard vince alla grande. Ma vince anche in civiltà. Il fatto che ci siano degli scontri non toglie, come al solito, che la stragrande maggioranza dei suoi abitanti siano persone per bene. Avremmo voluto dire che ci hanno spaccato il telefonino come hanno fatto con altri colleghi, che ci hanno cacciato a pedate, che abbiamo visto cassonetti e auto incediate. Non possiamo dirlo perché non ci hanno cacciato, non ci hanno tirato sassi, non ci hanno derubato.

Lasciamo anche il quartiere Ghetto di Rosengard e, sempre a piedi, torniamo verso Malmö. Piove e fa freddo nonostante sia giugno. La temperatura è di circa 12 gradi. Guardiamo un campetto da calcio. Ci sono bambini che giocano. Qui come ovunque nel mondo. Inseguono il sogno di Ibra. Il ragazzo del giardino delle rose che ha imparato prima a fare a botte e poi a giocare a pallone.

 

 

 

 

 

 

GIUGNO 2015 Un medico italiano a Bruxelles: "Qui la bravura conta"


Tra le mie interviste nella bellissima città di Bruxelles eccone una alla quale tengo molto. Parla di un medico italiano che lavora in una clinica belga e ci parla della differenza con la sanità italiana. E’ il dottor Marino Vilbi. Ecco il servizio uscito sul quotidiano Il Giorno:


sabato 16 febbraio 2019

GIUGNO 2016 Bruxelles: viaggio nel quartiere di Molenbeek, covo dei terroristi islamici


Hanno offerto tutto ai loro cittadini. Istruzione con scuole all’avanguardia, una sanità eccellente e lavoro. Perché la grandezza di un paese si misura dal livello della cultura, dalla qualità degli ospedali e dalle industrie cresciute grazie alla laboriosità dei suoi cittadini. Scuola, sanità e lavoro garantiti ai belgi e anche a coloro che sono arrivati da fuori per migliorare le loro condizioni di vita. Eppure, in un paese moderno e in una città all’avanguardia come Bruxelles, qualcosa non è andato come si deve. Gli attentatori di Parigi e della stessa Bruxelles provenivano proprio dal quartiere malfamato di Molenbeek Saint Jean, la zona dove vivono gli islamici. Siamo andati a conoscerla. Pura curiosità la nostra, perché ovunque ci rechiamo vogliamo raccontare le nostre impressioni.

Nessun intento di realizzare reportage come quelli già usciti e di ottimo livello nelle ultime settimane. Percorriamo il canale che attraversa la città lo scorso 2 giugno in un clima che non assomiglia per nulla a quello di fine primavera. Freddo, pioggia, nebbia non sono condizioni inusuali, anzi è la regola da quelle parti. Ci addentriamo nel quartiere e tutto cambia. L’architettura è diversa, si notano decine di palazzacci multipiano tutti identici somiglianti ai casermoni popolari sorti in Italia negli anni ’70. I citofoni parlano chiaro. I cognomi sono quelli di El Boudaini, Bentaib, Bouhammel, tutti nordafricani. Nemmeno l’ombra di un cognome belga. Da avenue de Roovere a boulevard Edmond Machtens è un susseguirsi di palazzacci. Entriamo nel pieno di Molenbeek e troviamo negozi in lingua araba nei quali entrano soltanto islamici. Al negozio di alimentari Douma Boulangerie ci serve Soudà, si fa chiamare ‘Simo’ dagli amici.

E’ marocchino e ha vissuto anche in Italia, dal 2007 al 2009. “Ma qui si sta meglio ve lo garantisco – ci dice sorridendo mentre ci serve – qui si può guadagnare e si può vivere bene. In Italia facevo il muratore nella zona di Napoli, ma non mi trovavo per niente bene. Allora sono venuto a Bruxelles ed è cambiato tutto. Il lavoro qui c’è per tutti. Dei terroristi non ne so nulla. Io vivo la mia vita e non mi interessa quello che fanno gli altri”. E’ la stessa risposta che danno altre persone. A noi non accade nulla di strano. Non veniamo minacciati o aggrediti come è accaduto ad altri colleghi che sono entrati a Molenbeek a realizzare servizi su questo quartiere. Anzi, la gente ci parla in tono amichevole. Una ragazza col velo ci dice: “Molenbeek è grande. Non è possibile colpevolizzare tutti per colpa di pochissimi”.

Non possiamo negare però che nel quartiere islamico l’atmosfera è strana. E’ quella del ghetto sudafricano. Alla fin fine uno di quei palazzacci con le antenne paraboliche e i muri scrostati non sono diversi dall’edificio della Vincenziana della nostra  Magenta dove vengono ospitati i richiedenti asilo. Poco distante, a Rue de Liverpool, ci sono soltanto persone di pelle nera. Come nel quartiere congolese di Matogè. All’interno dei negozi solo persone di colore servite da persone di colore. Nessun bianco entra in quella via perché sembra quasi appartenere a loro. I neri da una parte e i bianchi nella faccia buona di Brucexelles. Quella della Grand Place e delle cattedrali. Quella delle vie tradizionali e delle comitive che arrivano da tutto il mondo. Il turista non entra a Molenbeek, che ci andrebbe a fare. Evidentemente qualcosa di marcio si nascondeva in quella città dall’aspetto pulito. Dalle ragazze bionde con gli occhi azzurri bene istruite dagli uomini d’affari in giacca e cravatta.

Qualcuno covava un odio esasperato, esploso con una violenza inaudita e l’ha voluto dimostrare a tutto il mondo. Possibile che non ci si sia accorti di nulla? L’aeroporto oggi è militarizzato. Bruxelles vuole uscire da questo incubo e ci riuscirà perché ci abitano persone intelligenti. Ha dato tutto ai suoi cittadini e, almeno in teoria, alle persone che ha ospitato. Ha dato istruzione, cultura, ospedali eccellenti e fabbriche che offrono lavoro. Le basi per costruire una società civile. Eppure, nonostante tutto, qualcosa non ha funzionato.

LUGLIO 2013 Porto Empedocle, dalle stradi di mafia al rllancio turistico. Intervista al Sindaco Lillo Firetto


Quale sviluppo turistico per una cittadina come Porto Empedocle? Un paese del sud della Sicilia che ha tanto da offrire ai visitatori anche, se ancora oggi, vive di un turismo ‘mordi e fuggi’. Di passaggio per intenderci. A Porto Empedocle si resta poco, solo qualche giorno al massimo. Oppure si prende la nave alla volta di Lampedusa. Abbiamo incontrato il sindaco Calogero Firetto, da tutti conosciuto con il soprannome di Lillo.

E’ al secondo mandato come sindaco di Porto Empedocle e, alla seconda tornata elettorale, è stato eletto con un numero impressionante di voti. Il 93% degli empedoclini gli ha dato fiducia. E’ diventato anche deputato regionale e capogruppo dell’Udc all’assemblea regionale siciliana. A seguito di tale incarico svolge il mandato da sindaco a titolo gratuito. Lo abbiamo incontrato un po’ casualmente all’Hotel dei Pini insieme al suo addetto stampa. “Abbiamo ereditato una città con la morte dentro, – spiega – che arrivava dal sogno industriale con la Montedison degli anni ’70 poi naufragato”.

La casa di Pirandello
 

Gli anni ’80 furono teatro di stragi di mafia di una violenza incredibile. In tanti ricordano quella sera di domenica del mese di settembre del 1986 quando un commando armato spense le luci di via Roma, fece calare le tenebre sul paese e scaricò centinaia di colpi d’arma da fuoco. Sei persone persero la vita. Gli anni passarono e, pur con tanti problemi, Porto Empedocle, può oggi essere considerata meta per turisti. Le trattorie e pizzerie suono a buon mercato, la roba costa pochissimo, la gente è cordiale. “Abbiamo lavorato per recuperare il nocciolo della città, ovvero il porto – continua il sindaco. Che è di interesse nazionale ed è rimasto decaduto per tantissimi anni. Non si andava più al porto nemmeno per passeggiare perché era dissestato. E da qui sono partiti ingenti investimenti per recuperarlo, compresi i lavori al porticciolo turistico”.
 

Nel periodo estivo vengono invitati cantanti di successo, è stata perfino allestita una mostra presso la Torre Carlo V. Inoltre la città è stata inserita quale punto d’arrivo delle rotte di numerose navi da crociera che fanno tappa nel Mediterraneo. Servirà tutto questo per attirare il turismo di massa? Inutile sottolineare le bellezze che si possono ammirare a pochi minuti di strada. Dalla Valle dei Templi, alla casa dove visse Luigi Pirandello. Dalla parete rocciosa dalla bianca scogliera di gesso della ‘Scala dei Turchi’ al fatto, non da poco, che la città ha dato i natali allo scrittore Andrea Camilleri, padre del commissario Salvo Montalbano.
Furgone incendiato in un quartiere popolare
 

Certo gli empedoclini si rammaricano che nemmeno una scena del film sia stata girata a Porto Empedocle, ma quella è la sua città e tale rimarrà nella storia. “Porto Empedocle ha una popolazione di circa 18mila abitanti che in estate raddoppiano. – afferma il sindaco Firetto – Ha un’anima culturale di primo piano, il nostro progetto è di farla rinascere sfruttando la storia di questa città. I genitori di Pirandello erano di Porto Empedocle, la mamma negli ultimi 10 giorni di gravidanza è salita nella casa di campagna e così in qualsiasi bibliografia risulta essere nato ad Agrigento. E poi non abbiamo solo Pirandello e Camilleri, ma altri letterati e matematici, è una città che, anche se nata come germoglio di Agrigento, ha una sua storia importante. Una sua vivacità. Anzi, è probabile che la vivacità commerciale si sia svolta proprio qui. Agrigento era la città delle chiese con l’Arcivescovado. La città, scrive Camilleri ‘dei preti e degli avvocati’, ma la vita ferve li, a Porto Empedocle”.

Graziano Masperi

Andrea Cattaneo
 

LUGLIO 2013 Porto Empedocle: ecco il cimitero delle barche naufragate e dei sogni spezzati


Quando le vedi resti a fissarle per alcuni minuti con lo sguardo fisso. Leggi le scritte in arabo e ti guardi attorno. Li vicino c’è la Madonna protettrice dei naviganti, e il porto. Ti rendi conto che quelle sono le barche della speranza e della morte. Non puoi non pensarci. Siamo a Porto Empedocle, Sicilia meridionale in provincia di Agrigento. A qualche ora di traghetto da Lampedusa dove la scorsa settimana erano sbarcati centinaia di africani. E’ così tutte le settimane, non è certo una novità per i residenti. Guardi nelle imbarcazioni e vedi i segni della disperazione: suppellettili, vestiti, oggetti personali rimasti dall’ultimo naufragio. Sono cinque le barche rimaste al molo di Porto Empedocle, tutte quelle recuperate dall’inizio di quest’anno. Quella più grossa era finita contro uno scoglio e mostra un grosso squarcio.

Ti chiedi come sia stato umanamente possibile fare un viaggio di giorni per centinaia di persone ammassate nella stiva di quell’imbarcazione. Per raggiungerle siamo stati accompagnati da Marco, un pescatore del posto, che ci ha dato un ‘passaggio’ con il suo piccolo peschereccio.


 
“Noi quasi non li vediamo questi poveri ragazzi – afferma – sbarcano a Porto Empedocle e li caricano sui pullman. Poi vengono portati nei centri di accoglienza richiedenti asilo. C’è anche una struttura per la loro sistemazione temporanea vicino al porto, ma adesso è chiusa”.

 Martedì scorso la nave che ha riportato centinaia di turisti da Lampedusa a Porto Empedocle ha trasferito anche 150 senegalesi. Tutti giovanissimi, prelevati dalla Polizia e trasferiti nei ‘Cara’. C’erano diverse pattuglie della Polizia coordinate dal vice questore aggiunto Cesare Castelli.


“Se avete un sacchetto lo mettete qui, prima di salire sul pullman”, ammoniva un poliziotto che controllava lo sbarco.  Tutto viene svolto nella massima sicurezza, nulla è lasciato al caso. Il maresciallo capo Pasquale Novara della Capitaneria di porto elogia il lavoro dei colleghi: “Svolgono servizi impeccabili, evitando tragedie”, e aggiunge: “A volte tentano la fuga arrivati in porto, ma sono fughe che durano poco. Dove potrebbero andare? Si trovano in un paese che non conoscono”. Al bar della spiaggetta si parla dei problemi del paese, ma quello degli immigrati non rappresenta certo una preoccupazione.

“Quasi nemmeno li vediamo – dice un uomo – da parte nostra quello che possiamo fare lo facciamo. Per noi la solidarietà è una cosa innata. Siamo stati anche noi immigrati a suo tempo, oggi è diverso”.
 

LUGLIO 2013 Nella Val Susa i No Tav in corteo protesta contro l'Alta Velocità


A fine luglio 2013 ci siamo recati in Val Susa per vedere la valle e suoi splendidi paesi ricchi di storia e per documentare la  manifestazione dei No Tav dal paese di Giaglione a Chiomonte percorrendo l’area esterna al cantiere. Era un sabato caldissimo. Sia ben chiaro, i reportage che facciamo fuori dal nostro territorio non vogliono essere una precisa ed accurata documentazione degli eventi. Per questo ci sono i colleghi del posto, sicuramente meglio informati di noi. Questi appunti sono semplicemente un collage delle nostre impressioni su eventi di cronaca che riguardano tutti, vista la loro dimensione. Era da parecchio che volevo andarci in Val Susa e finalmente ci sono riuscito. Collega d’avventura Andrea Cattaneo. Volevamo dare una risposta ai nostri, tanti, dubbi. In parte ci siamo riusciti, ma tante domande restano senza risposta.

Eravamo in tremila circa al campo sportivo di Giaglione. Persone di ogni età, chi con la bandiera dei No Tav, chi senza niente, chi con il cagnolino al seguito. Famiglie intere, dal nonno al nipotino. Dal ventenne con la fidanzata all’operaio, dall’impiegato all’avvocato, dall’anziano, al disoccupato. Quasi tutti originari della valle e qualche forestiero. Questa è la prima cosa che balza all’occhio. La compattezza dei valsusini è ammirabile. Tengono tantissimo alla loro terra, e la difenderanno in ogni modo. Probabilmente il treno dell’Alta Velocità bucherà le montagne della Val Susa, la ferirà in maniera irreparabile. Ma, a quale prezzo?

“Abbiamo inviato un documento a Roma perché chiediamo che la politica riprenda l’iniziativa in merito alla Val Susa – ci ha detto il sindaco di Sant’Ambrogio, Dario Fracchia – Questo è un problema politico economico che non può essere lasciato alle forze dell’ordine. Siamo 21 sindaci, due non sono della Val Susa. Questa  non è una lotta della sola Val Susa, ma è una lotta di tutti gli italiani. Vogliamo che si risolvano le questioni principali del paese, non quelle che portano ad uno spreco incredibile di risorse”. Le forze dell’ordine presidiano l’area del cantiere in maniera serrata. Ci siamo avvicinati a loro e, insieme, abbiamo scherzato. Il caldo era opprimente anche in Val Susa e molti erano senza casco di protezione. Hanno deviato il percorso verso un altro sentiero, scatenando le ire dei manifestanti.
 
“L’ordinanza integrativa del Questore estende la zona rossa, – spiega un manifestante -hanno in pratica aumentato la zona di sicurezza del cantiere. E questo non è un clima distensivo”. Qualcuno dice: “Noi vorremmo passare, la vogliamo vedere questa ordinanza”. Negativo, la risposta dei poliziotti non ammette repliche. Finchè tutto si risolve e un manifestante prende in mano la situazione: “Prendiamo un altro sentiero, risaliamo e scendiamo da dietro. Passiamo attaccati alle reti e risaliamo verso le zone archeologiche”. Tutto bene a dirsi, a farsi un po’ meno. La deviazione imposta dalla Polizia ha obbligato i partecipanti al corteo ad una vera e propria scalata quasi verticale di almeno duecento metri. “La polizia provoca”, ci dice un uomo. Pensate forse che questa provocazione abbia fatto desistere qualcuno? Manco per idea. Perfino due padani come il sottoscritto e il collega Cattaneo hanno scalato la parete portandola a termine con i segni e le spine conficcate nelle mani. Abbiamo visto ultrasettantenni con problemi di salute portare a termine quell’ascesa. Arrivare in cima e gridare verso i poliziotti: “Giù le mani dalla Val Susa”, con tutta la voce che avevano in corpo.


Scendiamo nuovamente verso valle fino a Chiomonte dove è ubicato il cantiere. E sempre veniamo guardati a vista da gruppi di decine di poliziotti che si sono rimessi il casco di protezione, e hanno il giubbotto antiproiettile e lo scudo davanti per proteggersi. Sabato non ci sono stati episodi di violenza, per fortuna. I violenti devono sparire, devono andarsene dalla Val Susa perché rischiano di mettere in discussione un movimento pacifico. Solo pochi giorni fa ci sono stati degli arresti. Una donna ha accusato di molestie le forze dell’ordine. Ecco allora che le valsusine hanno aperto il corteo gridando ad alta voce: “Giù le mani dalla Val Susa, giù le mani dai nostri corpi”. Slogan scandito ad alta voce fino alla fine della manifestazione. Ce ne saranno altri di cortei. I No Tav non abbassano la guardia, difenderanno a denti stretti la loro terra.