venerdì 1 marzo 2019

FEBBRAIO 2019 Tirana, Albania: dalle proteste ai luoghi comuni su un popolo che vuole crescere


Che ci piaccia oppure no quello che succede in Albania ci riguarda da vicino. L’opinione che abbiamo degli albanesi è sempre la stessa, ovvero legati alla malavita. Spaccio di droga e prostituzione sono affare loro. Poi ti rechi a Tirana e scopri un altro mondo. Non è così, non bisogna credere a quello che raccontano i media. E, se a dirlo è un giornalista, c’è da preoccuparsi. Due giorni a Tirana, la capitale. Perché vedere quello che succede fuori dal nostro paese aiuta ad arricchire la nostra testa. Cominci a imparare appena esci dall’aeroporto Madre Teresa e parli con il tassista. "Dobbiamo andare in boulevard George Bush, ci porti?".


Parla un po’ di italiano, come tutti anche se in Italia non ci sono mai stati. "Boulevard George Bush? E’ il nostro eroe – dice – ma oggi non si può andare li, è pericoloso. Ci sono gli scontri". "Proprio per questo ci andiamo, grazie". Ci porta, e mentre percorriamo il rettilineo che arriva al centro di Tirana scopriamo le industrie cresciute a vista d’occhio. Non manca di parlarci degli anni bui del comunismo il nostro autista: "Sono cresciuto cantando Celentano e Mina, quando noi non potevamo fare niente – diceva – guardavamo Rai uno e pensavamo a quanto eravate fortunati. Non potevamo pregare, era vietata dal regime la religione". Il cordone della Polizia ci lascia entrare nel cuore della manifestazione. Dopo gli incidenti di sabato si sono premuniti schierando un migliaio di agenti. "Rama Ik, Rama Ik", ulano. Vuol dire "Edi Rama, vai via!", e mostrano il segno della democrazia. Qualche fumogeno e, per fortuna, nulla di grave. Non succede nulla. Incontriamo un italiano a Tirana per lavoro. Aggiusta macchinari industriali.



"Piantatela di dire cavolate – ci dice – mia moglie mi ha telefonato pensando che stesse scoppiando la guerra, invece non c’è proprio niente". Ha ragione. Ma che ci devo fare se è così. La gente si arrampica sugli alberi. Ragazzi con la bandiera americana. "Qui sono tutti filo americani, cento per cento americani capito. Abbiamo dedicato una via all’eroe George Bush", dice uno. E un altro aggiunge: "Attenzione non è una manifestazione del popolo questa. Molti non sono favorevoli e Edi Rama qualcosa ha fatto per l’Albania. Questi che protestano sono cento volte peggio. L’Albania ha tanti piccoli problemi. Manca ancora la volontà di risolverli. Fai un giro qua attorno e scoprirai che c’è tanta gente che se ne frega di questa manifestazione ed è contraria". Ci facciamo accompagnare. E’ vero. Le vie attorno sono piene di ragazze e ragazzi. Una città viva che cresce e si porta il fardello di tanti anni di buio totale. Costa pochissimo uscire a cena e si mangia bene. Cinque o sei euro. Una camera otto euro a notte.


 L’Albania cresce, ma di fatto resta un paese povero. Esci e ti addentri appena fuori piazza Scanderberg e trovi bambini che scavalcano i cassonetti a caccia di qualche cianfrusaglia da portare via. In centro è diverso. Ragazze con i vestiti alla moda e con lo smartphone di ultima generazione che fanno compere per le vie dello shopping. L’area delle vecchie mura è la zona bene di Tirana. Con i pub sempre pieni, il wi fi libero. La sera però i ristoranti sono semi vuoti. Al teatro ci siamo entrati, è strapieno di ragazzi che si divertono. La sera non è come la vicina Bosnia dove regna il copri fuoco. La gente è in giro e si diverte. Della criminalità che ci immaginiamo non c’è manco l’ombra. Dalle 22 aprono i locali di lap dance. Maria è albanese e ha 22 anni. "Mi piace la musica e lavoro qua da diversi anni – commenta – non sono una prostituta, qui si lavora bene e ti pagano". Ci sono anche ragazze dalla vicina Serbia, alcune dalla Grecia. E poi ci sono le chiese. Nuove perché con il comunismo le avevano abbattute.



La chiesa di san Paolo all’ingresso mostra Madre Teresa, la statua della santa albanese che ha dedicato la vita gli altri. Ci sono tanti Ortodossi. Dicono che la popolazione sia per metà musulmana, ma dicono anche che i musulmani in Albania non sono praticanti. Non abbiamo sentito la preghiera del muezzin come in Bosnia e avremo visto non più di due donne con il velo. Le due moschee a Tirana sono in fase di restauro. Hanno grande rispetto per gli italiani in Albania, ma i turisti sono pochissimi. Vogliono entrare nella Comunità Europea gli albanesi. Non puoi certo paragonare Tirana alle grandi capitali europee, ma un paio di giorni si possono fare. Ne vale la pena perché si scopre un mondo nuovo che ha voglia di emergere tra le mille difficoltà.



La corruzione c’è, inutile negarlo. Ma c’è tanto di bello. Il museo della storia e dell’archeologia di piazza Scandemberg merita una mezza giornata. Ingresso quasi gratis. Trecento Lec e gratis per i giornalisti. "Anche quelli italiani?", chiedo. "Certo, anche i giornalisti italiani. Se entri trovi l’arma di Mussolini quando entrò in Albania e le divise del Battaglione Gramsci, quello della Resistenza", racconta una dipendente.

 




 
 
 

SETTEMBRE 2018 Le due velocità del Marocco: dal lusso sfrenato alla povertà dei villaggi


Non c’è posto dove puoi capire il Marocco se non nei piccoli villaggi. Non hanno nulla nei piccoli villaggi. Vivono di quello che riescono a produrre e il tempo sembra essere tornato indietro di un secolo. Ain Saicr è un minuscolo agglomerato di casolari fatiscenti in mezzo a distese di campagne, in questo periodo talmente aride da farle somigliare al deserto. Sembra quasi impossibile anche soltanto immaginare di vivere in un posto del genere, eppure nel Marocco emergente, se ne contano una marea. A una settantina di chilometri da Kouribga c’è, appunto, Ain Saicr. Inutile cercarlo su Google maps, se c’e’ non si vede. È semplicemente uno dei tanti posti dimenticati dal mondo.

Poco prima del villaggio c’è un bellissimo canale d’acqua sorgiva circondato da palme. “Qua la gente viene per respirare un po’ di fresco”, dice Khalid, la nostra guida. Siamo io, Giux, Roby e Khalid. La spedizione magentina,  si fa per dire. Poco più avanti c’è il villaggio. Scendo dall’auto e mi dirigo verso le casupole. Ci sono una decina di bambini che quando mi vedono restano a bocca aperta. Non so quanti turisti si sono mai fermati in quel villaggio. Probabilmente nessuno. Non è certo una tappa che propongono le agenzie di viaggio. Saluto i bambini. Cerco di farmi capire e loro ridono. Arriva Khalid che traduce.

Quei bambini fanno tutti i giorni decine di chilometri a piedi per raggiungere una scuola. Alcuni sono palesemente malati e malnutriti. Le abitazioni somigliano a delle stalle per gli animali da cortile. Ci sono due uomini. Uno è l’Imam del villaggio. Prende 200 euro al mese ed è un po’ il referente della comunità, ma è malato anche lui. Ogni agglomerato di case, o piccolo villaggio che sia, ha la sua moschea. Anche Ain Saicr ha la moschea. “È stata costruita da chi vive qua – dice l’Imam – ognuno ha dato il suo piccolo contributo e chi non ha dato nulla può entrare come tutti gli altri”.

Sembra incredibile che famiglie che vivono in uno stato di povertà totale abbiano trovato la forza per farsi una moschea. Eppure è così dappertutto. Entriamo. Ci togliamo le scarpe e l’Imam mostra orgoglioso quello che hanno saputo fare. Il sole spacca il cervello. Quaranta gradi si sentono e si aspetta con ansia il periodo delle piogge. Poco più avanti c’è il mega impianto per l’estrazione del fosfato, una ricchezza per alcuni. Ma non per loro. I bambini ridono ancora. Gli chiedo se conoscono Cristiano Ronaldo. Tutti conoscono Cristiano. In Marocco è un idolo nel vero senso della parola e vedere in giro le sue maglie indossate dalla popolazione è la regola. Anche i bambini di Ain Saicr lo conoscono. Lasciamo il villaggio percorrendo chilometri di strada prima di trovarne un altro.

Ai lati i bambini si incamminano verso la scuola. Qualcuno riesce a strappare un passaggio saltando il carretto trainato dall’asino. Gli adulti restano sulla strada a vendere i fichi d’India ai passanti. Si vive alla giornata e il tempo scorre lentamente nei villaggi. Così diversi dal Marocco che vuole imporsi. A Marrakech c’è il casinò, gli hotel per ricchi, i poveri. Ad Agadir abbiamo visto Ferrari parcheggiate su lungo mare, alberghi di lusso per turisti stranieri e tantissimi poveri fuori dalla città. A Kouribga abbiamo visto che si costruisce a ritmo forsennato. Chi ha soldi può investire e diventare ricco. Ma i poveri resteranno sempre poveri. Nei villaggi ci sono solo poveri. Anziani malati e bambini che sorridono anche se non hanno niente. Dimenticati dal mondo.
 

NOVEMBRE 2017 Barcellona, gli indipendentisti in protesta davanti alla Sagrada Famiglia