giovedì 14 novembre 2019

Ucraina, anche tra le chiese ortodosse non corre buon sangue (VIDEO)

All’inizio di settembre, nella città di Kiev capitale dell’Ucraina, ci siamo imbattuti in una manifestazione. Una delle tante manifestazioni di protesta che in quel paese ancora polveriera dimenticata, nascono spontaneamente. Ma quella era una manifestazione particolare. Un nutrito gruppo di persone, armate solo di cartelli e megafoni, stazionava davanti alla bellissima cattedrale di Santa Sofia, simbolo della chiesa Ortodossa Ucraina. Non conosciamo l’ucraino e ci siamo fatti tradurre quel che dicevano. Abbiamo così scoperto la situazione di forte tensione che c’è tra le chiese ortodosse dopo che quella ucraina si è staccata da Mosca dichiarandosi autocefala. Ovvero: indipendente.

Insomma, in un paese dove il conflitto nel Donbass crea ancora una forte instabilità, dove la corruzione è ancora presente nonostante il rinnovamento della classe politica, dove perfino la libertà di stampa viene messa a dura prova (come testimonia una nostra inchiesta) e i giornalisti subiscono spesso minacce, perfino le chiese ortodosse di Kiev e Mosca non si amano. Il Patriarcato di Costantinopoli ha concesso l’autocefalia alla chiesa ortodossa ucraina che si è separata dal patriarcato di Mosca interrompendo così i rapporti con Costantinopoli. Uno scontro che ha paventato un nuovo scisma interno alla chiesa ortodossa.

Ho assistito a diverse funzioni religiose a Kiev. Nella cattedrale di Santa Sofia e in quella di San Michele distante poche centinaia di metri dalla prima. Luoghi religiosi sempre pieni di fedeli in raccolta. Dove la religione è importante e fa parte della vita delle persone. In un paese ancora lontano dal trovare la pace.


giovedì 17 ottobre 2019

Libertà di stampa in Ucraina: intervista su Radio Cusano Campus


In merito all'articolo uscito su Osservatorio Diritti riguardante la libertà di stampa in Ucraina oggi sono stato intervistato da Radio Cusano Campus. Ecco il link

 

venerdì 27 settembre 2019

Kiev, protesta davanti al palazzo delle comunicazioni: "Non spegnere NEWSONE TV"

Il 5 di settembre passeggiavamo per il centro di Kiev, io, Giux e Roby. Il giorno prima avevamo fatto tappa a Chernobyl, un’esperienza coinvolgente e intensa per tutti e ci stavamo rilassando ripercorrendo mentalmente quello che avevamo visto. Ci trovavamo nei pressi di quello che avremmo scoperto subito dopo, essere il palazzo delle comunicazioni e ci siamo imbattuti in una manifestazione. Nulla di chiassoso. Una protesta pacifica con delle persone che mostravano cartelli in cirillico. Spinto dalla mia ovvia curiosità mi sono soffermato e ho chiesto ad alcuni colleghi giornalisti cosa stesse succedendo. Alexander, in maniera molto gentile, mi ha spiegato che si protestava perché dal palazzo la commissione si era riunita per presentare ricorso al tribunale e chiedere l’annullamento della licenza a NewsOne TV, una emittente di Kiev non troppo simpatica ai piani alti della politica. Ma come? Mi sono detto. Un paese che vuole crescere sta ancora combattendo la libertà di parola e di informazione?


L’argomento mi interessava tantissimo e, mentre Giux e Roby, facevano rientro all’appartamento che avevamo preso in affitto, io sono rimasto a seguirla insieme ai giornalisti del luogo. E non c’è stato nulla di più bello che veder lavorare colleghi come me, ma in un’altra città parecchio lontana da casa. Non mi bastava assistere. Già che c’ero dovevo anche io realizzare un servizio. Ho documentato l’accaduto e ho inviato una mail alla redazione di NewsOne TV chiedendo se vi fossero precedenti e quali. E, per quale motivo, si era arrivati a tutto questo. Mi hanno risposto con un report che mi ha lasciato senza parole. La libertà di espressione in Ucraina, ancora oggi, non solo è osteggiata.


Ma i giornalisti sono oggetto di ripetute minacce, aggressioni fisiche e si sono registrati anche alcuni omicidi. Ne è nato un articolo che ho pubblicato sul sito con cui collaboro da qualche mese, Osservatorio Diritti, diretto da Marco Ratti. Un sito che si occupa di monitorare il rispetto dei diritti umani nel mondo. Ecco qui sotto l’articolo, le foto e un breve video di quanto accadde quel pomeriggio del  5 settembre a Kiev.
LEGGI L'ARTICOLO SU OSSERVATORIO DIRITTI
https://www.osservatoriodiritti.it/2019/09/26/ucraina-guerra-europa-est-liberta-di-stampa/
 


 

lunedì 23 settembre 2019

Come entrare a Chernobyl

Durante la mia recente permanenza a Kiev ho partecipato al viaggio di un giorno a Chernobyl. Uno di quei viaggi programmati che ti consentono di visitare, in massima sicurezze, le zone del più grande disastro nucleare della storia.

Ho scritto un articolo su Ticino Notizie con video nel quale la nostra guida spiega anche in italiano cosa stiamo vedendo e un altro simile su Logos News.







mercoledì 7 agosto 2019

E' l'Islam a dominare l'Inghilterra o è il contrario?

Quando sei all’estero, lo smartphone è scarico e cerchi disperatamente una strada in una città che non conosci e con una lingua in cui te la cavi appena (prometto che mi metterò sotto a studiare) son dolori. Ero a Manchester a inizio luglio e cercavo Victoria Station. Vedo un ragazzo dai tratti somatici nordafricani e gli chiedo la strada. Ero stanco e la mia pronuncia non è stata delle più felici. Il ragazzo mi guarda con gli occhi da professorino ‘so tutto io e te sei un ignorante patentato’ e mi ripete in maniera corretta la pronuncia di quel luogo. Io, che lo avrei preso volentieri a pedate, abbasso la testa e cerco di capire le indicazioni che mi fornisce. Perché questo esempio? Perché quel ragazzo, dalle origini nordafricane era inglese come tutti gli altri. Ed era orgoglioso di esserlo, al punto da guardarmi male perché non ho pronunciato nel modo corretto la sua lingua. La stessa cosa l’ho notata in tantissime altre persone che non erano propriamente di origini inglesi.

Prima di recarmi oltre Manica mi ero fatto un’idea della situazione, leggendo vari articoli su internet, di un paese dominato dall’Islam. Dove ormai erano tutti musulmani e perfino il sindaco di Londra è musulmano. Dove le chiese erano sempre più vuote e le moschee sempre più piene. Mi sono sempre promesso di non credere a quello che leggo, ma solo a quello che vedo e a alle mie sensazioni. Tutto vero sui dati statistici. A Manchester e a Londra alloggiavo in due quartieri a stragrande maggioranza islamica. Dove pakistani, egiziani, africani, sudamericani (e italiani…), si sentivano inglesi al cento per cento. Dove hanno comprato grandi boutique, gestiscono catene di ristoranti e se la tirano per questo. Dove Momo Salah, fuoriclasse del Liverpool, è venerato nel sua paese natale come se fosse un dio. Perché? Perché ha sfondato in una terra di ricchi ed è diventato ricco anche lui. Dove la corsa di 10km alla quale ho partecipato a Manchester è stata vinta da un nordafricano. Ebbene, quando gli ho chiesto di dove fosse originario lui mi ha guardato sgranando gli occhi e ha risposto: “But look, I'm a hundred percent English”. Verissimo che ci sono tantissime moschee in tutta l’Inghilterra. E con questo? A pregare mica si fa peccato. Le chiese che si svuotano?

Ma cos’hanno visto gli autori di certi reportage che si leggono? Le chiese erano piene zeppe, altro che balle. A Tooting, quartiere di Londra dove ho alloggiato per tre giorni, c’erano un centro islamico, una moschea e una scuola per bambini arabi. Ebbene, come vuole la tradizione inglese quei bambini arabi indossavano tutti la giacchetta con lo stemma della loro scuola. Come vogliono le regole delle scuole inglesi. Insomma, non mi  è sembrato proprio un paese dominato dall’Islam. Anzi, mi è sembrato proprio il contrario. Arabi che, in Inghilterra, sono diventati più inglesi degli stessi inglesi. Felici di esserlo e di correggerti se sbagli a parlare nella loro lingua. Prima di partire avevo una convinzione. Come al solito questa convinzione è stata smentita…

 

lunedì 15 luglio 2019

I quartieri multietnici di Manchester e Londra, dove convivono tutte le religioni del mondo


Della settimana che ho trascorso in Inghilterra parlerò ora dei due quartieri nei quali ho soggiornato e che, quindi, ho avuto modo di conoscere. Si tratta di Cheetham Hill a Manchester e di Tooting Broadway a South London. Per risparmiare ho scelto i prezzi più economici e booking mi ha indirizzato su questi due quartieri che un tempo erano considerati ‘malfamati’. Visto che non credo a quello che scrivono, ma solo a quello che vedo ero ben felice di addentrarmi in altri quartieri con una fama poco felice. Ovviamente non ho riscontrato nulla di particolarmente terribile. Anzi, ho trovato entrambi i luoghi particolarmente caratteristici e con gente amichevole.
 
Parliamo di Manchester, e di Cheetham Hill. Si trova a nord di Manchester. E’ un insieme di culture che vanno da ogni paese europeo, agli asiatici, africani, sudamericani. Ci sono chiese cattoliche, c’è la Jamia Mosque, abbiamo visto un matrimonio indiano. I negozi sono multietnici, si trovano quasi esclusivamente pizzerie e kebab gestiti da islamici. Abbiamo incontrato anche un italiano di Reggio Emilia che vive in quel quartiere da un paio di anni. “Non ho notato un tasso di criminalità elevato, anzi si vive tranquilli – racconta – nulla di pericoloso. Qui trovi veramente di tutto”.
 
L’altro quartiere è quello di South London, Tooting Broadway. E’ come Cheetham Hill, moltiplicato per cento.  Da quartiere malfamato è diventato crocevia di culture. Pakistani, indiani, estremo oriente, africani, europei, e chi più ne ha più ne metta. La comunità islamica è ben radicata. C’è il Tooting Islamic Centre dove si organizzano corsi di ingua, con relativa scuola per bambini musulmani e una moschea. Ci sono edifici per tutte le altre religioni. Ci sono, ovviamente, anche italiani che ci lavorano. Una ragazza marchigiana lavora in un ristorante di Tooting Broadway da sei anni. Sono sempre affollati i ristoranti di quel quartiere perché si risparmia. In media puoi cenare o pranzare con 10 pounds che, a confronto dei prezzi esorbitanti che si trovano nei quartieri del centro, è ben poca cosa. E si mangia anche bene. Criminalità, scarsa. Il quartiere è ben controllato. Ci sono alcuni homeless, ma si tratta di personaggi che hanno scelto quel modo di vivere. Il lavoro c’è, nessuno rimane disoccupato.
 

venerdì 12 luglio 2019

Londra, Brexit: pittoresche manifestazioni davanti a Buckingham Palace (VIDEO)

Londra non è europea. Londra è una capitale mondiale. Culture di tutti i continenti si mischiano in maniera perfetta. Anche le manifestazioni davanti al Parlamento dei pro brexit e di chi, invece, vuole rimanere nell’UE, sono a dir poco pittoresche. Come in un grande set cinematografico.


I giornalisti televisivi inglesi passano ore a truccarsi, a decidere che tipo di atteggiamento tenere e quale smorfia è meglio mostrare al pubblico durante la diretta televisiva, i poliziotti si fermano a fare foto con i turisti. E’ tutto così semplice da sembrare finto. L’Inghilterra però si è accorta che potrebbe perdere molto senza il contatto con l’UE. Come potrebbe farcela da sola in un mondo sempre più globalizzato? Londra, crocevia di turisti.


Londra che attira giovani da tutto il mondo desiderosi di rimanere. Per alcuni mesi, anni o per tutta la vita. Passeggi e incontri asiatici, africani, sudamericani, europei, americani, di tutto. Tutti che si vogliono sentire inglesi e alla fine lo diventano. Londra accoglie tutti e mantiene vive le sue secolari tradizioni. Perchè così deve essere, brexit o non brexit.
 

sabato 8 giugno 2019

Le cause della migrazione, un corso alla Caritas di Milano


Il 25 maggio scorso ho partecipato, presso la sede della Caritas di Milano in via San bernardino, ad un corso sulle cause della migrazione e sui contesti di origine dei richiedenti protezione internazionale. Con particolare riferimento alla Nigeria, al Sudan e altre nazioni dell’Africa Subsahariana. Pubblico nel mio blog il materiale che ci è stato fornito durante il corso consultabile cliccando su





MATERIALI CORSO CARITAS ISPI
 

 
 

sabato 25 maggio 2019

L'inganno dei baby calciatori africani: la promessa di diventare come Ronaldo e l'incubo della realtà

C’è un fenomeno in Africa che non viene minimamente considerato dal mondo dorato del pallone. Quello dei ragazzini ingannati che finiscono per strada dopo aver creduto alla promessa di diventare calciatori in Europa. Il fenomeno ha preso piede da alcuni anni e si nasconde dietro il business dei baby calciatori. Ma in questo caso è ancora peggio. In diversi stati dell’Africa Sub Sahariana le condizioni di vita sono leggermente migliorate rispetto al passato. Questo ha permesso a molte famiglie di garantirsi una televisione e molti hanno anche uno smartphone che gli consente di avere un account facebook. Televisione e facebook rischiano di trasformarsi nel peggiore dei regali che questi ragazzini possano avere. In televisione arrivano le immagini di Cristiano Ronaldo, del Barcellona, della Juventus, del campionato inglese, della Champions League. In casa del ragazzino arriva il truffatore. Un finto procuratore che promette un avvenire assicurato nei più grandi club europei.

“Cosa aspetti? Se non arrivi in tempo il tuo posto verrà preso da qualcun altro”. La famiglia ci crede, il ragazzino sogna ad occhi aperti. La truffa è fatta. La famiglia vende tutto. I soldi servono per trasferire il ragazzino in Marocco, il paese dal quale partire. Da lì il procuratore lo trasferirà in Europa. Spagna, Italia, Francia, Inghilterra, Germania. Il sogno si sta per avverare. Ma non è così. La famiglia gira tutti i soldi ottenuti al procuratore truffatore, nella convinzione che tutto tornerà indietro appena il loro figliolo approderà in una grande squadra. Ma non sanno ancora che dietro tutto questo c’è l’inganno. Il ragazzino arriva in Marocco e del procuratore non c’è più traccia. Il telefono è staccato, i soldi sono spariti. Il ragazzino chiama la famiglia. La risposta è lapidaria: “Non tornare più, non ti vogliamo. Per noi sei morto”. E’ la fine. Indietro non si torna. Senza nulla il ragazzino cerca di arrivare in Europa dove andrà a riempire la marea di clandestini che sopravvivono allo sbando. Ed entra in gioco il secondo strumento dell’inganno: Facebook.

Perché per un africano approdare in Europa vuol dire diventare uomo. Se torni indietro sei un fallito. Se non fai i soldi in Europa sei un fallito. Il ragazzino si fa i selfie nelle grandi città. Scrive che va tutto bene, quando in realtà è un clandestino che vive di stenti e non sa dove sarà il giorno dopo. Sognava Ronaldo ed è finito sulla strada. La televisione, facebook, l’inganno. Indietro non si torna. Piuttosto si muore.

 

lunedì 1 aprile 2019

Mamme musulmane negli oratori di Magenta a preparare la merenda. Don Giuseppe anticipa l'incontro tra le comunità dell'11 maggio

La Pasqua continuerà anche dopo il triduo. E così il parroco di Magenta don Giuseppe Marinoni ha annunciato, nella conferenza stampa di oggi in casa parrocchiale, tre eventi che coinvolgeranno la comunità. Cominciamo dal terzo punto, assicurando i lettori che proporremo a breve anche i primi due punti. Sabato 11 maggio alle 20 il Centro Paolo VI ospiterà l’incontro tra le due comunità, quella cristiana e quella islamica di Magenta. I primi avranno appena terminato la Pasqua, mentre i secondi saranno in pieno Ramadan.

 “Ci racconteremo le nostre esperienze reciproche – spiega don Giuseppe – poi, al calar del sole quando gli amici musulmani cesseranno il digiuno, ceneremo insieme”. Lo aveva promesso dopo la lettera ‘Con immensa simpatia il parroco. Di avviare un cammino con la comunità islamica. E, in generale, anche con cristiani provenienti da altri paesi che vanno periodicamente in chiesa. L11 maggio sarà preceduto da una preparazione. “Alcune mamme di religione musulmana organizzeranno, nei prossimi giorni, delle merende nei nostri oratori – continua il parroco – il nostro unico obiettivo è di incontrarci e conoscerci. Nel suo recente viaggio in Marocco il Papa ha detto che i cristiani non devono fare proselitismo. Faremo questi incontri con semplicità e non per raccogliere nuovi fedeli”.

Perché il parroco di Magenta ha deciso di fare tutto questo? “Non è certo una decisione che ho preso da solo – commenta – è stata meditata con cura insieme ad altre persone. Ma penso ad una cosa, prima di tutto. A quello che sarà Magenta tra 20 anni. Quando ci saranno ancora più musulmani di oggi. Quando i miei vicini saranno musulmani, e in moltissimi casi già lo sono. Dobbiamo conoscerci, solo in questo modo potremo crescere insieme”. 

venerdì 1 marzo 2019

FEBBRAIO 2019 Tirana, Albania: dalle proteste ai luoghi comuni su un popolo che vuole crescere


Che ci piaccia oppure no quello che succede in Albania ci riguarda da vicino. L’opinione che abbiamo degli albanesi è sempre la stessa, ovvero legati alla malavita. Spaccio di droga e prostituzione sono affare loro. Poi ti rechi a Tirana e scopri un altro mondo. Non è così, non bisogna credere a quello che raccontano i media. E, se a dirlo è un giornalista, c’è da preoccuparsi. Due giorni a Tirana, la capitale. Perché vedere quello che succede fuori dal nostro paese aiuta ad arricchire la nostra testa. Cominci a imparare appena esci dall’aeroporto Madre Teresa e parli con il tassista. "Dobbiamo andare in boulevard George Bush, ci porti?".


Parla un po’ di italiano, come tutti anche se in Italia non ci sono mai stati. "Boulevard George Bush? E’ il nostro eroe – dice – ma oggi non si può andare li, è pericoloso. Ci sono gli scontri". "Proprio per questo ci andiamo, grazie". Ci porta, e mentre percorriamo il rettilineo che arriva al centro di Tirana scopriamo le industrie cresciute a vista d’occhio. Non manca di parlarci degli anni bui del comunismo il nostro autista: "Sono cresciuto cantando Celentano e Mina, quando noi non potevamo fare niente – diceva – guardavamo Rai uno e pensavamo a quanto eravate fortunati. Non potevamo pregare, era vietata dal regime la religione". Il cordone della Polizia ci lascia entrare nel cuore della manifestazione. Dopo gli incidenti di sabato si sono premuniti schierando un migliaio di agenti. "Rama Ik, Rama Ik", ulano. Vuol dire "Edi Rama, vai via!", e mostrano il segno della democrazia. Qualche fumogeno e, per fortuna, nulla di grave. Non succede nulla. Incontriamo un italiano a Tirana per lavoro. Aggiusta macchinari industriali.



"Piantatela di dire cavolate – ci dice – mia moglie mi ha telefonato pensando che stesse scoppiando la guerra, invece non c’è proprio niente". Ha ragione. Ma che ci devo fare se è così. La gente si arrampica sugli alberi. Ragazzi con la bandiera americana. "Qui sono tutti filo americani, cento per cento americani capito. Abbiamo dedicato una via all’eroe George Bush", dice uno. E un altro aggiunge: "Attenzione non è una manifestazione del popolo questa. Molti non sono favorevoli e Edi Rama qualcosa ha fatto per l’Albania. Questi che protestano sono cento volte peggio. L’Albania ha tanti piccoli problemi. Manca ancora la volontà di risolverli. Fai un giro qua attorno e scoprirai che c’è tanta gente che se ne frega di questa manifestazione ed è contraria". Ci facciamo accompagnare. E’ vero. Le vie attorno sono piene di ragazze e ragazzi. Una città viva che cresce e si porta il fardello di tanti anni di buio totale. Costa pochissimo uscire a cena e si mangia bene. Cinque o sei euro. Una camera otto euro a notte.


 L’Albania cresce, ma di fatto resta un paese povero. Esci e ti addentri appena fuori piazza Scanderberg e trovi bambini che scavalcano i cassonetti a caccia di qualche cianfrusaglia da portare via. In centro è diverso. Ragazze con i vestiti alla moda e con lo smartphone di ultima generazione che fanno compere per le vie dello shopping. L’area delle vecchie mura è la zona bene di Tirana. Con i pub sempre pieni, il wi fi libero. La sera però i ristoranti sono semi vuoti. Al teatro ci siamo entrati, è strapieno di ragazzi che si divertono. La sera non è come la vicina Bosnia dove regna il copri fuoco. La gente è in giro e si diverte. Della criminalità che ci immaginiamo non c’è manco l’ombra. Dalle 22 aprono i locali di lap dance. Maria è albanese e ha 22 anni. "Mi piace la musica e lavoro qua da diversi anni – commenta – non sono una prostituta, qui si lavora bene e ti pagano". Ci sono anche ragazze dalla vicina Serbia, alcune dalla Grecia. E poi ci sono le chiese. Nuove perché con il comunismo le avevano abbattute.



La chiesa di san Paolo all’ingresso mostra Madre Teresa, la statua della santa albanese che ha dedicato la vita gli altri. Ci sono tanti Ortodossi. Dicono che la popolazione sia per metà musulmana, ma dicono anche che i musulmani in Albania non sono praticanti. Non abbiamo sentito la preghiera del muezzin come in Bosnia e avremo visto non più di due donne con il velo. Le due moschee a Tirana sono in fase di restauro. Hanno grande rispetto per gli italiani in Albania, ma i turisti sono pochissimi. Vogliono entrare nella Comunità Europea gli albanesi. Non puoi certo paragonare Tirana alle grandi capitali europee, ma un paio di giorni si possono fare. Ne vale la pena perché si scopre un mondo nuovo che ha voglia di emergere tra le mille difficoltà.



La corruzione c’è, inutile negarlo. Ma c’è tanto di bello. Il museo della storia e dell’archeologia di piazza Scandemberg merita una mezza giornata. Ingresso quasi gratis. Trecento Lec e gratis per i giornalisti. "Anche quelli italiani?", chiedo. "Certo, anche i giornalisti italiani. Se entri trovi l’arma di Mussolini quando entrò in Albania e le divise del Battaglione Gramsci, quello della Resistenza", racconta una dipendente.

 




 
 
 

SETTEMBRE 2018 Le due velocità del Marocco: dal lusso sfrenato alla povertà dei villaggi


Non c’è posto dove puoi capire il Marocco se non nei piccoli villaggi. Non hanno nulla nei piccoli villaggi. Vivono di quello che riescono a produrre e il tempo sembra essere tornato indietro di un secolo. Ain Saicr è un minuscolo agglomerato di casolari fatiscenti in mezzo a distese di campagne, in questo periodo talmente aride da farle somigliare al deserto. Sembra quasi impossibile anche soltanto immaginare di vivere in un posto del genere, eppure nel Marocco emergente, se ne contano una marea. A una settantina di chilometri da Kouribga c’è, appunto, Ain Saicr. Inutile cercarlo su Google maps, se c’e’ non si vede. È semplicemente uno dei tanti posti dimenticati dal mondo.

Poco prima del villaggio c’è un bellissimo canale d’acqua sorgiva circondato da palme. “Qua la gente viene per respirare un po’ di fresco”, dice Khalid, la nostra guida. Siamo io, Giux, Roby e Khalid. La spedizione magentina,  si fa per dire. Poco più avanti c’è il villaggio. Scendo dall’auto e mi dirigo verso le casupole. Ci sono una decina di bambini che quando mi vedono restano a bocca aperta. Non so quanti turisti si sono mai fermati in quel villaggio. Probabilmente nessuno. Non è certo una tappa che propongono le agenzie di viaggio. Saluto i bambini. Cerco di farmi capire e loro ridono. Arriva Khalid che traduce.

Quei bambini fanno tutti i giorni decine di chilometri a piedi per raggiungere una scuola. Alcuni sono palesemente malati e malnutriti. Le abitazioni somigliano a delle stalle per gli animali da cortile. Ci sono due uomini. Uno è l’Imam del villaggio. Prende 200 euro al mese ed è un po’ il referente della comunità, ma è malato anche lui. Ogni agglomerato di case, o piccolo villaggio che sia, ha la sua moschea. Anche Ain Saicr ha la moschea. “È stata costruita da chi vive qua – dice l’Imam – ognuno ha dato il suo piccolo contributo e chi non ha dato nulla può entrare come tutti gli altri”.

Sembra incredibile che famiglie che vivono in uno stato di povertà totale abbiano trovato la forza per farsi una moschea. Eppure è così dappertutto. Entriamo. Ci togliamo le scarpe e l’Imam mostra orgoglioso quello che hanno saputo fare. Il sole spacca il cervello. Quaranta gradi si sentono e si aspetta con ansia il periodo delle piogge. Poco più avanti c’è il mega impianto per l’estrazione del fosfato, una ricchezza per alcuni. Ma non per loro. I bambini ridono ancora. Gli chiedo se conoscono Cristiano Ronaldo. Tutti conoscono Cristiano. In Marocco è un idolo nel vero senso della parola e vedere in giro le sue maglie indossate dalla popolazione è la regola. Anche i bambini di Ain Saicr lo conoscono. Lasciamo il villaggio percorrendo chilometri di strada prima di trovarne un altro.

Ai lati i bambini si incamminano verso la scuola. Qualcuno riesce a strappare un passaggio saltando il carretto trainato dall’asino. Gli adulti restano sulla strada a vendere i fichi d’India ai passanti. Si vive alla giornata e il tempo scorre lentamente nei villaggi. Così diversi dal Marocco che vuole imporsi. A Marrakech c’è il casinò, gli hotel per ricchi, i poveri. Ad Agadir abbiamo visto Ferrari parcheggiate su lungo mare, alberghi di lusso per turisti stranieri e tantissimi poveri fuori dalla città. A Kouribga abbiamo visto che si costruisce a ritmo forsennato. Chi ha soldi può investire e diventare ricco. Ma i poveri resteranno sempre poveri. Nei villaggi ci sono solo poveri. Anziani malati e bambini che sorridono anche se non hanno niente. Dimenticati dal mondo.
 

NOVEMBRE 2017 Barcellona, gli indipendentisti in protesta davanti alla Sagrada Famiglia

giovedì 28 febbraio 2019

Novembre 2017, La moschea di Barcellona: porte sempre aperte, il turista entra quando vuole


Il Centro Culturale Islamico di Carrer Rafael Capdevila a Barcellona è il terzo che ho visitato nella mia vita dopo quelli di Magenta (era in via Oberdan tempo fa e non esiste più) e Abbiategrasso in via Crivellino. Quali differenze ho trovato? Nessuna. L’unica è la presenza della moschea sotto il centro a Barcellona, mentre ad Abbiategrasso non si può parlare di moschea anche se viene usato per la preghiera, oltre che per attività varie.

Perché ne parliamo? Volevamo vedere come e se si sono integrati i musulmani in una città che solo recentemente ha subito un gravissimo attentato di matrice islamica costato la vita anche ad un uomo della nostra zona. Come e perché in quella terra si siano radicati giovanissimi invasati che hanno ucciso. Domande rimaste senza risposta, come già sapevamo. Raggiungere il Centro Culturale Islamico non è stato difficile. Arrivati a Carrer Capdevila lo abbiamo visto subito. Il portone è sempre spalancato. Testimonianza che il Centro è perennemente aperto ai visitatori. All’ingresso abbiamo trovato una ragazza musulmana che ci ha accolto: “Potete andare dove volete”, ha detto. Eravamo quasi stupiti. Ma come, in una terra dove c’è chi ha seminato odio uccidendo dei poveri innocenti non sembrava proprio di entrare in un luogo chiuso.
 

Leggiamo il sito del centro e la troviamo anche per iscritto, sul loro sito, quella che è la filosofia portata avanti da chi lo frequenta: “Nuestra asociación está abierta a todo el público en general, de esta manera buscamos ofrecer que todas las personas sin distinción, tengan la posibilidad de conocer el islam. Nuestras jornadas y actividades están destinadas para favorecer la integración entre todos, sean musulmanes o no”. Ma ovviamente a noi curiosi non bastava il Centro Culturale. Volevamo vedere anche la moschea. Chiediamo alla ragazza che acconsente. Arriva un responsabile, Alì. Egiziano. Ci accompagna alla moschea. Ci togliamo le scarpe. Entriamo. C’è silenzio totale. Alcuni pregano. Alì ci spiega che è il venerdì il giorno di massima frequentazione, come ovunque. In Catalogna sono alcune migliaia i musulmani. Lui non è mai stato in Italia, se non di passaggio.
 

“Sia prima che dopo l’attentato terroristico i rapporti con gli abitanti di Barcellona sono sempre stati meraviglios”, ha detto. Torniamo sempre al solito discorso. La stragrande maggioranza degli islamici vive in pace. E gli attentati che hanno colpito nelle più svariate città europee ci lasciano attoniti. Ci spingono a dire che l’Islam porta solo odio e che non vogliamo i musulmani nelle nostre terre. Giusto o sbagliato che sia noi raccontiamo quel che vediamo. A Barcellona hanno seguito una linea diversa. Il sindaco Ada Colau è sempre stata a favore dell’accoglienza portandosi dietro critiche feroci. Che abbia fatto bene o male non spetta a noi giudicarlo. Di certo continua su questa strada favorevole all’accoglienza dei migranti. Anche dopo la strage sulla Rambla.
 

Per una mezzora siamo rimasti nella moschea insieme ad Alì. Abbiamo osservato ovunque. Si può entrare anche il giorno della preghiera. Sono loro a volerlo per mostrare al mondo che non odiano nessuno. Eppure c’è sempre qualcosa che non va. Salutiamo Alì. Usciamo da Carrer Capdevila. Inshallah, ci vediamo se Dio vuole.
 
 

sabato 23 febbraio 2019

AGOSTO 2016 Carol, la volontaria svizzera che aiuta i profughi


Ci piace raccontare quello che succede nel mondo. Quindi non ci limitiamo al nostro territorio, ma a volte sconfiniamo. Senza alcuno scopo di guadagno, ma soltanto per conoscere e capire le problematiche che ci affliggono. Siamo tornati sul fenomeno immigrazione a Como dove abbiamo incontrato Carol. E’ una ragazza di 20 anni che vive nel cantone Svizzero di Zurigo e fa la volontaria, senza tra l’altro appartenere a nessuna associazione, al campo profughi allestito di fronte alla stazione San Giovanni. Carol inizialmente ci guardava con diffidenza. Temeva chi si presentava dicendo di essere giornalista. Poi, col trascorrere del tempo, abbiamo avuto un incontro amichevole e ci ha raccontato come si svolgono le giornate al campo profughi di Como. “Volevo vivere un’esperienza diversa, è per questo che sono qua – racconta – Non so quanti volontari ci sono. C’è chi arriva solo per un giorno e chi rimane per più tempo”.

Ci sono raccolte per i vestiti, un servizio da barbiere, vengono svolte attività di vario genere. Come quella di avere avviato un corso di lingua tedesca. “La stragrande maggioranza di loro vuole andare in Germania – continua Carol – è per questo che abbiamo cominciato ad insegnare ai ragazzi i rudimenti di tedesco”. Il lavoro di questi ragazzi è importantissimo. Tengono controllato un campo profughi dove arrivano decine e decine di migranti ogni giorno. Tutti giovanissimi. “Non passa giorno che qualcuno tenti di varcare la frontiera – ammette Carol – qualcuno ci riesce, molti vengono rispediti indietro”.

AGOSTO 2016 Alta la tensione a Ventimiglia, tra centinaia di profughi che vogliono varcare il confine


Una cittadina al collasso per l’emergenza profughi. L’abbiamo toccata con mano martedì quando ci siamo recati al confine tra Italia e Francia per cercare di capire come stanno andando le cose. E le cose non vanno per niente bene. Ieri non c’erano migranti sugli scogli. “Li hanno portati nella caserma per le procedure di identificazione”, ha spiegato un poliziotto in servizio al confine. La dogana è presidiata dagli Alpini della Taurinense. Andiamo alla ex caserma, un edificio dove ci abitano ancora poliziotti italiani e francesi. Lo stato di allarme è massimo. Quando ci vedono arrivare almeno tre funzionari ci vengono incontro e chiedono subito i documenti. Temono i ‘No Borders’, il gruppo che tutela la presenza dei profughi. Ma chi sono i ‘No Borders? “C’è di tutto in quel gruppo – dice un funzionario della Polizia di Stato – avete visto le armi che abbiamo sequestrato ieri? Ci sono anarchici di Milano e di Marsiglia. Non ci si può fidare di nessuno”. Vogliamo parlare con i profughi. Ne arrivano in quantità enorme a Ventimiglia. Ogni momento è buono. Alla stazione ci sono alcuni eritrei. Un ragazzo di 20 anni ci racconta: “Non voglio rimanere qua, devo raggiungere Parigi perché c’è mia moglie. Ma i francesi non ci fanno passare”. La Francia li respinge. Passi il confine e arrivi a Mentone. Un metro di distanza e cambia il mondo. Tanti che fanno jogging da un confine all’altro. Mentone è zeppa di turisti. Ventimiglia è caotica, traffico infernale. Le vie di fuga però sono parecchie, non solo gli scogli. Si passa anche per le montagne. Qualcuno ci riesce, molti non ce la fanno. I sentieri sono zeppi di immondizia, luridi.

Alcuni dormono così, tra i sacchi di rifiuti. E provano la fortuna. “La polizia francese è anche sulle montagne e anche di notte – racconta una volontaria della Caritas – ne hanno bloccati tantissimi sulle montagne”. Alla stazione ci sono alcune famiglie eritree. Donne e bambini piccolissimi. “Only arabic”, dicono. Parlano solo in arabo. Un ragazzo ci mostra i segni del coltello. “Li ho presi in Libia – dice – Is very dangerous in Libia. Dall’Eritrea siamo andati in Sudan, poi in Libia. Un inferno. Si rischia la morte in Libia. Poi siamo arrivati in Sicilia e a Milano, per arrivare a Ventimiglia. Anche io voglio andare a Parigi, non voglio rimanere in Italia”.

Il campo profughi è un’area dismessa (il Parco Roja) di proprietà delle Ferrovie messa a disposizione della Croce Rossa Italiana. C’è un sole cocente quando ci arriviamo. Ci sono gruppetti di sudanesi che escono e ci salutano. Sotto il sole che spacca il cervello alcuni ragazzi giocano a bigliardino. E’ pieno di giornalisti. Una televisione belga, altri colleghi della Repubblica Ceca e una giornalista del quotidiano spagnolo di Barcellona La Vanguardia. Il fenomeno ‘immigrazione’ interessa tutto il mondo.
 

Ad oggi non sappiamo come andrà a finire. I profughi hanno un cartellino che dimostra il loro status. Il cancello è sempre spalancato. Sudan Eritrea, Ciad, questi i paesi di provenienza. Ma soprattutto sudanesi. “Sull’età ci sono molte perplessità – dice l’addetta stampa della Croce Rossa – alcuni sono ragazzini e dichiarano tutti di essere nati il primo gennaio. Non lo sanno perché non c’è l’anagrafe al loro paese. Crescono nei villaggi e non vengono mai a saperlo”. Sono stati visitati. I medici non hanno riscontrato problemi. Al campo profughi ci sono solo uomini che vivono in container (sono circa 80 i container) da cinque, sei posti. Aperto dal 16 luglio 1.300 sono state le presenze al Parco Roja. Un numero impressionante, al quale vanno aggiunte le famiglie. La Croce Rossa fornisce i pasti e l’abbigliamento. Alcuni hanno magliette stampate per la Suisse Gas Milano Marathon, sono quelle avanzate. “Non è certo una galera – continua – qui i ragazzi entrano ed escono liberamente”.  Anche li controlli serrati. Ci controllano i documenti almeno 5 o 6 volte. Forse di più.

Articolo: Graziano Masperi, foto: Francesco Maria Bienati